I (wish I) Forgot My Phone
Su Youtube il corto “I Forgot My Phone”, della durata di 2′ circa, postato dall’utente Charstarlene, è arrivato in poco più di una settimana a oltre 14 milioni di visualizzazioni. La protagonista vive una giornata senza smartphone (lei); il problema è chi le sta intorno.
Condividendolo su Facebook e aggiungendovi come status “Autocritica”, una mia amica ha perfettamente colto la drammaticità del monito che si cela dietro l’innocente e semplice sceneggiatura. Alzi la mano chi non si è mai ritrovato seduto ad un tavolo con tutti i commensali impegnati a smanettare con lo smartphone. Evito proprio di aprire, data la stima che ho per il mio fegato, invece, l’argomento “video col telefono ai concerti”.
Gli smartphone hanno innegabilmente alterato le nostre abitudini relazionali e la percezione di ciò che “si conviene”. Basti pensare alla dittatura del “visualizzato” che ha escluso la possibilità di essere troppo impegnati per limitarsi alla lettura di un messaggio, procrastinandone la risposta. Lontani i tempi in cui non si telefonava a casa oltre l’ora di cena, il consolidamento di questa nuova forma di alienazione dell’individuo, (e dire che c’era chi già si preoccupava per le nostre infinite partite a Snake!) ha ormai raggiunto la sua apoteosi grazie alla diffusione dei social network nel palmo della nostra mano.
Condivido dunque sono: il virtuale è diventato più reale del reale. Il bisogno di legittimare e trovare approvazione sociale nell’arena di facebook per tutto ciò che facciamo è la spia d’allarme di un senso di solitudine e instabilità, creato dall’universo relazionale espanso all’infinito dalle reti dei social network.
Un migliaio di “amici” proietta l’illusione di una realtà più grande e doppia. Una community di follower a cui inconsciamente sentiamo di dovere o dovere dimostrare qualcosa, e che sono in fin dei conti la fonte dell’isolamento e della marginalizzazione dalle nostre vere cerchie sociali, esponenzialmente più contenute nei numeri rispetto a quelle sbandierate sulle nostre timeline.
Riflettendo più strettamente sull’aspetto individuale attinente l’abuso di smartphone, questi tendono ad appagare – o meglio, a far credere di poter appagare – un altro bisogno: quello di poter prolungare in linea di principio all’infinito il piacere derivante dall’esperienza estetica che stiamo vivendo. Se posso riprendere col telefono un intero concerto fino a che le mie braccia non siano completamente atrofizzate, l’infinita riproducibilità in video dello stesso, successivamente mi consentirà di rivivere e replicare il piacere e le emozioni della prima volta. Quale piacere, quali emozioni? Quelle di dover badare che il cantante sia a fuoco, che non ci siano teste che coprano l’inquadratura, che la memoria sia sufficiente e la batteria carica, che urti e spintoni non facciano ballare l’immagine, che per i propri muscoli anchilosati ci sia ancora vita al di là dell’acido lattico il giorno dopo?
Se si decide di barattare il brivido di ascoltare il proprio pezzo preferito suonato dal vivo, guardando uno schermo anziché il palco, per avere un filmato di qualità medio-bassa (e audio pessimo), allora guardate che su Amazon periodicamente i cd dei live sono in offerta 2×3; riempite il carrello, che ha più senso così.
Tanta tecnologia insomma, per poi fare la figura dei polli. Come l’uomo nella scena finale di “I Forgot My Phone”. Lei, a letto, spegne la luce e lo abbraccia, aspettando magari una qualche timida reazione. Dal nero emerge la faccia ebete di lui, occhi puntati su chissà quale timeline.
PS: se vi piace, condividetelo pure, ci mancherebbe, però solo se siete a casa e non avete altro da fare.