“Potere e prossimità”: la lectio di Massimo Cacciari a Benevento

Nella giornata in cui si celebrano i valori costituzionali su cui poggia la nostra Repubblica in stato di coma, un severo monito alla classe dirigente proviene da Massimo Cacciari, ospite al cinema teatro San Marco di Benevento, nell’ambito del Symbolum – Festival della fede, dove tiene una interessantissima lectio magistralis sul tema de “Il potere e il prossimo”, nell’incontro introdotto dal presidente dell’associazione “La Conchiglia”, Paolo Palumbo e dal direttore del Centro Studi Sannio, Michele Ruggiano.

La vacuità di significato che è costretta nel termine “potere”, assolutamente inadeguato e insufficiente a fornire un’esaustiva definizione del concetto, rappresenta, per l’ex sindaco di Venezia il necessario punto di partenza per una eziologia esegetica del linguaggio. Quel linguaggio che va soppesato, adattato ai diversi contesti e, sottolinea Cacciari, “in tempi di crisi tende purtroppo a slabblarsi”. Ciò che noi sbrigativamente chiamiamo potere può essere meglio espresso da due coppie di vocaboli, appartenenti rispettivamente alla lingua greca e latina.

ImmagineI Greci parlavano infatti di kratos  e dynamis. Il primo indica un caso limite di potere, ossia inteso come perficere, piena volontà interiore che riesce a trovare compiuta realizzazione, l’idea che si fa fatto. Un caso limite, in quanto una simile capacità può appartenere solo agli dei. Più “umano” è il concetto di dynamis, che introduce l’elemento probabilistico della possibilità, dell’accidente, eventualità che possono avere un effetto frenante o limitante sulla volontà di portare a compimento un’idea. Questo primo dittico di parole individua una contraddizione intrinseca al potere. L’essere umano, autodeterminatosi e dotato di coscienza del proprio sé, può adoperarsi per dare forma concreta alle proprie aspirazioni. Egli, tuttavia, nel farsi faber fortunae suae deve pure affrontare l’imprevedibilità della fortuna.

I Romani erano soliti distinguere due dimensioni di potere, la potestas dalla auctoritas. Il vocabolo italiano potere deriva proprio da potestas, che è a sua volta etimologicamente legato al termine pater. Configura un potere legato alla dimensione patria e autoritaria dell’obbedienza ossequiosa, di matrice maschilista, improntata al conservatorismo, alla difesa passiva dello status quo. La vera rivoluzione sta nell’uscire dalla dimensione fallocentrica e incorporare un elemento di femminilità all’interno della nozione di potere. È il caso dell’auctoritas la cui radice, dal verbo augere, suggerisce una forma di potere che sia genitrice, foriera di sviluppo, crescita, radicamento.

Non si tratta solo di correggere un’atavica asimmetria di gender. La questione attiene l’agire politico e i suoi fini. La politica avrà pure incrementato la propria quota di potere, ma ha perduto la capacità di agire con auctoritas, elaborando scopi e obiettivi da far germogliare e verso i quali condurre la società. Viene qui introdotto il tema della prossimità, richiamando la celebre metafora del buon Samaritano. Il potere si fa auctoritas nel momento in cui il primo non si limita a salvare dalle anguste sofferenze, ma si adopera per affrancare. Il potere è in questo caso il presupposto e il motore della libertà: l’auctoritas genera ulteriore auctoritas. Dopo aver curato le sue ferite e averlo condotto alla locanda a proprie spese, il Samaritano non ha generato un suddito, su cui esercitare la propria potestas, ma un essere libero, nuovamente in forze, capace di autodeterminarsi e quindi a sua volta di comportarsi con auctoritas. Se inteso in quest’ultimo senso, l’agire politico basato sul potere genera una corrispondenza biunivoca: non più una dialettica fondata sulla patria potestà che impone pavida obbedienza nei sudditi, ma la capacità carismatica di delineare obiettivi e propositi rendendosi persuasivi verso chi deve essere convinto a seguirli.  E’ questa la dimensione che la politica deve recuperare, invece di, come sottolineato anche dal presidente della Repubblica nel messaggio di auguri per il 2 Giugno, “scivolare nell’inconcludenza”: la capacità di salvare, liberare e, con autorevolezza, di tornare a infondere speranze, a dare e a darsi degli obiettivi, a fornire una visione che intende perseguire. Occorre che il potere riacquisisca senso e legittimità approssimandosi.  
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Questo in sintesi, il contenuto della lectio di Cacciari che prende le mosse dal suo saggio “Il
potere che frena” (2013, Adelphi). Peraltro, per il filosofo del PD si è trattato della prima visita a Benevento. Una prima volta che certamente non sarà l’ultima: Cacciari si è detto “scioccato”, tanto per la bellezza dei monumenti – omaggiato di una pubblicazione sull’Arco di Traiano, ne richiede un’altra dedicata al Chiostro di Santa Sofia – quanto dall’incuria e la scarsa pubblicizzazione in cui versano.