Nunzia e i contadini

Ben prima che il clima caciarone da “volemose bene” facesse da sfondo alla nascita di questo governo, un po’ PD, un po’ PDL, un po’ coi giovani, un po’ con le donne, un po’ coi tecnici, presieduto da Enrico Letta, il neo-ministro delle Politiche Agricole, l’avvocato Nunzia De Girolamo da Benevento, aveva già sibillinamente dato prova di possedere quelle doti da appeasement che fanno tanto “larghe intese”, e soprattutto di essere confortevolmente in sintonia con i lavoratori del settore primario.

Ospite il 1 Febbraio della trasmissione di Rai 3, Agorà, condotta all’epoca da Andrea Vianello, in un battibecco con Laura Puppato del PD e il giornalista di Libero Francesco Specchia, Nunzia nostra esclama: “Menomale che non dovevamo essere provinciali e pensare alla Siria. Dall’Italia siamo passati al Veneto. Altro che provinciali, siamo proprio contadini”. E alla Puppato che con garbo faceva presente che “il Veneto non è più terra di contadini”, Nunzia rispondeva: “Il Veneto è la terra dei contadini in assoluto”. 

Apriti cielo. Altro che “Hurrà, alè, viva a’ ministra”. I veneti, i contadini, non l’avranno presa benissimo, oggi come allora. In quella circostanza molti, su al Nord, ci tennero a ricordare al Ministro, che, quand’anche fosse, non è che sotto al Taburno c’è la Silicon Valley. Su Twitter ci si scatenò con l’hashtag #siamotutticontadini, citato dalla stessa De Girolamo che tentò di correggere l’uscita infelice twittando “Mia nonna era contadina.Orgogliosa delle mie origini”. 

Durissima fu la replica del sindaco di Padova: “Stupisce e amareggia che una persona che proviene dalla regione di Giambattista Vico, Benedetto Croce e Renato Caccioppoli, di Totò e di Eduardo De Filippo sia così ignorante. Parlare del Veneto come terra dei contadini, da una parte attribuisce una connotazione negativa ad un mestiere nobilissimo, che anzi andrebbe valorizzato e che ha consentito di vivere dignitosamente a generazioni di italiani, dall’altra dimostra una visione della nostra Regione che risale ad almeno 50 anni fa».

E chi era il sindaco di Padova? Flavio Zanonato. Fresco Ministro dello Sviluppo Economico del governo Letta. Lo stesso di cui fa parte Nunzia De Girolamo.

Fantaquirinale 5 stelle: lasciate in pace il soldato Gabanelli

Sulla vicenda politica che tiene banco in questi giorni, ossia l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, ancora una volta il Movimento 5 Stelle ha dimostrato di essere tanto caciarone quanto inconcludente, nonché scarsamente lungimirante.

Le contraddizioni in seno all’ambigua logica interna che caratterizza la sua dialettica, stanno gradualmente aumentando le perplessità dell’elettorato del Movimento, che, e Grillo deve farsene una ragione, è tutt’altro che convergente negli orientamenti rispetto alla base dei fedelissimi e degli attivisti. Oppure sì.

Già, perché il fatto, ridicolo di per sé, di convocare una consultazione online aperta a 48mila persone quando alle urne i voti pentastellati sono arrivati in numero di 8 milioni mi sembra debba suggerirci, tra gli altri, due spunti: primo, che il diritto che la premiata ditta Grillo&Casaleggio si è arrogata di rappresentare e far sentire la voce di un fantomatico “popolo della rete” – il quale, e lo dico ai giornali, molto più semplicemente NON E-SI-STE – è nella migliore delle ipotesi sovrastimato, nella peggiore, inventato di sana pianta; secondo, che la rosa dei dieci finalisti – date le modalità di svolgimento, mi tocca per forza utilizzare un gergo sanremese – lascia ulteriormente naufragare miseramente il pur lodevole tentativo di democratizzare l’elezione dell’inquilino del Quirinale. O perché i nomi sono frutto di scelte fatte col cuore – Grillo, Fo, Strada – senza prendere in considerazione le reali possibilità che questi illustri signori, data la presenza anche degli invisi schieramenti della vecchia politica, hanno di essere eletti; o perché altri nomi – vedi Bonino, Prodi, Rodotà – sono o sono stati discussi anche da quegli imbolsiti permalosi del PD.

Non proprio un grande sforzo, quindi, da parte di un partito che predica un radicale rinnovamento della classe politica italiana. I 5 Stelle hanno perso un’altra occasione per fare quello per cui hanno ricevuto la fiducia degli elettori italiani: decidere. In quel grande gioco cooperativo che è la politica, non solo italiana, avrebbero potuto sondare il terreno, calibrare le proprie debite esigenze di ideali, ponderandole con la realtà delle decisioni prese dagli altri attori e delle risultanti aspettative riviste in virtù di queste ultime. Invece, hanno preferito insistere con il canovaccio di un purismo a oltranza che oltre a infilare gli sprovveduti 5 Stelle in un cul de sac, comincia ad essere davvero poco convincente e utile come arma politica. Ne stanno forse iniziando a prendere atto loro stessi. Hanno organizzato questa buffonata telematica per scegliere un candidato Presidente della Repubblica, così come vengono assegnati i Telegatti, per poter prima dire “Questo è il nostro candidato. Noi portiamo avanti solo questo nome. Se gli altri non ce lo votano e convergono su un altro nome, allora è inciucio PD-PDL”. E via a puntare il dito in atto di accusa contro i nemici, rei di aver fatto ciò che, Costituzione alla mano, sembra essere la cosa più sensata da fare, ovvero, dato il ruolo istituzionale di garante dei valori della Carta, la delicata fase politica vissuta dal paese, la lunga durata del mandato, individuare un candidato che goda del consenso più trasversale possibile. Il granchio più grande preso dai grillini è stato quello di voler presentare come una identità i processi e le trattative che stanno dietro rispettivamente, la formazione di un Governo e l’elezione di un Presidente della Repubblica. Tuttavia, proprio in considerazione della particolarità delle funzioni che il Presidente è chiamato a ricoprire, i due procedimenti non potrebbero essere più diversi, e, al più, potrebbe avere un senso parlare di inciucio tra PD e PDL solo nel primo dei due casi – che poi, resta sempre da vedere il perché alla fine siano sempre quei due schieramenti a ritrovarsi puntualmente a discettare dei potenziali scenari politici futuri.

quirinale02Che la tattica inizi a farsi stantia, dicevo, se ne sono accorti loro stessi. Con Milena Gabanelli che quasi certamente declinerà l’invito, nonostante l’investitura di un frazione infinitesimale della rete, i “cittadini” del Movimento stanno convenendo sul fatto che, a questo punto, Stefano Rodotà rappresenta la migliore “non prima scelta”: perché non si tratta di un banale ripiego, la sua levatura istituzionale è inoppugnabile, gode di un livello di apprezzamento intorno all’arco costituzionale, esteso, ma soprattutto estendibile, non è una semplice scelta del “meno peggio”. Una conclusione, cui forse si poteva già giungere in una riunione con i parlamentari, senza scomodare il “popolo della rete”.

Capitolo Gabanelli, e qui concludo. Milena Gabanelli è probabilmente la miglior giornalista italiana al momento, ha rivoluzionato il modo di fare inchiesta, è una donna, ha personalità, è decisa, risoluta, tenace, indaga e denuncia il malgoverno senza guardare in faccia a nessuno. Insomma, pur avendone bisogno, giacché il malaffare il malgoverno in Italia non conoscono né limiti né pudore, di Gabanelli, in giro non ce ne sono molte. Anzi, non ce ne sono affatto.  Il Colle non è un premio alla carriera o una laurea honoris causa. La Gabanelli è più utile su Rai3 perché è lì, e non da inquilina del Quirinale, che riesce a fare più paura alla politica e al suo sottobosco. E’ lì che può e deve assolvere alla funzione di watchdog, di cane da guardia del potere. Lasciamoglielo fare.

PS: Proprio perché meno pericolosa al Quirinale che a via Teulada, fossi in PD e PDL non ci penserei due volte ad eleggere Milena Gabanelli Presidente della Repubblica.

Personalmente voterei per Rodotà ad occhi chiusi, ma temo alla fine prevarrà Amato.

Per mia colpa, mia colpa

Ce l’aveva quasi fatta a perdere anche stavolta. Quella del PD alle politiche del 2013 è la più clamorosa “non-vittoria” nella storia repubblicana italiana. Ma il confine tra l’insuccesso e una Caporetto si è fatto sempre più pericolosamente labile man mano che il vantaggio alla Camera si assottigliava fino a ridursi a mezzo punto percentuale. Normale quindi che, in un pomeriggio iniziato con moderata tranquillità, mutata in psicodramma dopo che le prime proiezioni smentivano gli instant poll, nessuno dei democratici si sia azzardato ad avvicinarsi a un microfono. Mezzo punto percentuale in meno alla Camera, e il PD avrebbe pacatamente, serenamente, lettianamente dovuto ammettere di “accettare con rispetto il verdetto degli italiani e  avviare una seria riflessione interna”.

ImmagineLa necessità di una riflessione sulle responsabilità da parte della dirigenza democratica può essere posticipata, fintanto che c’è da risolvere – ammesso che vi sia soluzione – il rebus Senato. Ma la “riflessione” non può non coincidere con una severa autocritica da parte dell’establishment di via Sant’Andrea delle Fratte. Bersani&co. possono e devono incolpare solo sé stessi per la mancata vittoria. Un successo che sarebbe dovuto essere addirittura schiacciante, date le condizioni di partenza e il certificato largo vantaggio, tali da conferire un valore al limite dell’epico, sia alla risicata vittoria del 2006 da parte del minestrone prodiano, ma paradossalmente pure alla batosta del 2008, quando il PD ottenne una percentuale di consensi, che in questa tornata è stata al più solo lambita per effetto delle primarie di coalizione.

I NUMERI – La coalizione di centrosinistra ha lasciato per strada rispetto al 2008 qualcosa come 3 milioni di voti. Sempre con riferimento alla coalizione, l’Italia dei Valori si comportò decisamente meglio del terzetto SEL+Centro Democratico+SVP, ottenendo il 4.37% e circa 100mila voti in più. Il PD dovrebbe chiedersi che fine abbiano fatto i 12 milioni di voti presi con Veltroni candidato premier,  e come si siano potuti ridurre oggi a 8 milioni e 640mila. Anche perché rispetto al 2008 il PDL è stato capace di fare molto peggio perdendo come coalizione più del doppio dei consensi smarriti dal centrosinistra.

IL PORCELLUM – Il ridicolo sistema elettorale con cui si è andati al voto ha rappresentato per il centrosinistra la zattera di salvataggio e la pala con cui scavarsi la fossa. È difficile non trattenere la perplessità di fronte ai proclami di vittoria, se si pensa che lo scenario prodotto questa volta dal porcellum è addirittura peggiore e più fosco rispetto al 2006, dove quantomeno una maggioranza al Senato, seppur irrisoria, c’era. Allora come oggi, il PD riteneva di poter essere il principale beneficiario del bizzarro e bizantino sistema elettorale disegnato dal porcellum, ritrovandosi puntualmente a pagare un pesante dazio. Con grande disappunto manifestato in maniera piuttosto esplicita anche dal Colle, è fallito l’obiettivo di modificare la legge elettorale durante l’anno di governo Monti. Si trattava di un obiettivo minimo richiesto alla politica dei partiti componenti la “strana maggioranza”, ma nessuno dei temporanei sostenitori di Monti ha mostrato la ferma volontà di mandare in pensione il porcellum, e in ciò il PD è non meno corresponsabile.

LA CAMPAGNA ELETTORALE – Non c’è solo il fatto che Bersani sia unanimemente ritenuto un leader privo del necessario carisma per ergersi a capopopolo e guida illuminata degli italiani (ci sarebbe da discutere sull’impellente e ineludibile necessità degli italiani di farsi “guidare” da una forte leadership). In campagna elettorale, il PD ha scelto in maniera tanto deliberata quanto scellerata…di non fare campagna elettorale. Un primo errore madornale è stato riposare sugli allori confidando nell’euforia generata dalle primarie di coalizione e da quelle per i parlamentari. Eventi che effettivamente hanno portato una ventata di entusiasmo e ottimismo nell’elettorato, la cui aura però è andata scemando nel tempo, sotto i colpi di una campagna elettorale tutta incentrata su temi meno nobili ma più concreti e pressanti, fisco su tutti. Con un 34-35% in cassaforte e Berlusconi costretto alle maratone televisive per rincorrere, la sensazione era quella di credere che bastasse evitare le sparate a la Grillo, opporsi all’aggressività rabbiosa e demagogica degli avversari, rifiutando l’ingaggio dialettico impostato su temi e toni degli altri. Ciò però ha comportato anche che il PD rinunciasse sostanzialmente ad andare a persuadere gli elettori casa per casa, se necessario, come non ha disdegnato di fare tale Obama Barack, che pure si sentiva abbastanza al sicuro. Si è fatto narcisisticamente ingolosire dall’ampia offerta di palinsesti televisivi, rinunciando alla sua storica capacità di richiamare gli elettori nelle piazze.

IL PROGRAMMA – Una simile strategia attendista di conduzione della campagna elettorale ben si accompagnava alla stesura di un programma scritto, il quale, quando non omissivo su certi punti – Cultura, Turismo per fare due esempi – brillava per vaghezza e generalità, due attributi rivelatori in fondo di un antico neo vecchio come il PD: la compresenza, che spesso si è tradotta in aperta conflittualità, di varie anime e orientamenti al suo interno, per bilanciare i quali a finire sull’altare sacrificale è stata la chiarezza sui progetti, una presa di posizione e una linea da dettare su alcuni temi – economia e lavoro per citarne due – di indubitabile e inequivocabile comprensione e deducibilità. Si è perseverato col dire che sarebbe stata introdotta una patrimoniale oltre una certa soglia di reddito e che si sarebbero tassate le transazioni finanziarie (quali?), mentre qualche settimana dopo il principale esponente dello schieramento avverso prometteva la restituzione dell’IMU e inviava milioni di lettere, alla faccia della vaghezza.

RENZI – Ahhh se ci fosse stato Matteo Renzi, a quest’ora la sinistra sarebbe in piazza a brindare! Quando i crampi allo stomaco per la risalita del centrodestra hanno iniziato a farsi sentire, il pensiero sospirante è subito andato al sindaco di Firenze. E certo che avrebbe vinto lui, ma non serviva mica perdere quasi le elezioni per scoprirlo. Sul Sole 24 Ore, il professore Roberto D’Alimonte nei giorni antecedenti il ballottaggio delle primarie di coalizione delineava chiaramente il paradosso di un Renzi che avrebbe tranquillamente sbancato alle elezioni, se gli fosse riuscito di vincere il duello a sinistra con Bersani.

Tutti i punti di cui sopra, per ribadire, concludendo, che il PD non è mai riuscito a trasmettere, se non a tratti e in maniera ancora una volta vaga ed evanescente, la convinta volontà di imprimere un risoluto cambiamento alla politica italiana. Ha fallito nel tentativo di proporsi all’elettorato come la vera e credibile alternativa progressista per iniziare un nuova stagione politica. Ritengo sia questo il motivo principale per cui molti, specie tra i giovani, abbiano alla fine optato per il Movimento Cinque Stelle. Confidavano in un PD più fresco e dinamico, ritrovandosi invece sempre i soliti da D’Alema alla Bindi  – e uno poi dovrebbe biasimare chi si rifiuta di votare per un partito che candida ancora Rosi Bindi!? – gli stessi personaggi tra l’altro che costituiscono l’apparato – di intellighenzia preferirei non parlare – del centrosinistra, da più di vent’anni. Sarà poi solo un caso che non si vinca mai?

Bar del Grillo/2

In un paese normale, un movimento propugnante la democrazia diretta ma internamente radiocomandato da due persone, che pesca a destra e sinistra, tra chierichetti e avventori di bar dello sport e sale da biliardo, ex fascisti e post-comunisti, masanielli e missionari della cosa pubblica, arriverebbe al 18% circa nei sondaggi a due settimane dal voto?

Il trend del Movimento 5 Stelle nelle rilevazioni pre-elettorali sembra alimentare dubbi sulla sua solidità e capacità di perdurare nel lungo periodo. Non solo: se l’Italia non fosse ormai quotidianamente solo una terra da spolpare in mano a magnaccia, faccendieri, ladri di stato e arruffoni vari, difficilmente Grillo potrebbe impegnarsi in altra attività che non sia circoscritta a quella di comico e fustigatore del potere. C’è poco da fare: Grillo mescolerà pure alla demagogia qualche elemento utopistico e un tentativo di imporre una nuova visione dell’etica pubblica e dello Stato, ma i voti li conquista quando urla e manda a quel paese mezzo Parlamento.

Il Movimento 5 Stelle ha bisogno degli scandali come Berlusconi del sesso. Per usare un termine dal vocabolario grillesco, l’M5S aveva fatto il “boom” a Novembre, con l’attenzione mediatica rivolta agli scandali nelle Regioni – i casi Fiorito e Maruccio in Lazio, poi successivamente le voci di spesa che i consiglieri regionali lombardi si sono fatti rimborsare – e alla mazzata all’immobiliarista Tonino Di Pietro, inflittagli da Report. Poi la flessione, frutto di una politica che riacquistava un minimo di credibilità grazie alle doppie primarie del PD per scegliere prima il candidato di coalizione e poi i parlamentare da mettere in lista, pur con tutte i chiaroscuri annessi alle citate consultazioni. A Gennaio il Movimento 5 Stelle retrocede ad una percentuale che i diversi istituti stimano tra il 10 e il 13 %. Infine la nuova linfa e la risalita offerta dallo scandalo del Monte dei Paschi di Siena.

Non credo ci fossero dubbi che il punto, dunque, non sono i programmi elettorali. La proposta del reddito di cittadinanza da Grillo, nei termini in cui è stata da lui formulata, non è economicamente meno choc della restituzione dell’IMU, sparata da Berlusconi.

In un paese tradizionalista e conservatore quale in fondo l’Italia è, ai partiti basterebbe comportarsi un minimo più virtuosamente e dare il buon esempio, per ridurre la portata del fenomeno 5 Stelle. Che però siano loro a fare la fine del tonno in scatola non è così scontato. Le politiche 2013 potrebbero benissimo rappresentare il picco massimo del M5S, per il quale, dal primo giorno di legislatura, comincerà la sfida più difficile.